Una storia come tante, forse. Un dramma comune a tante mamme e papà, genitori di figli che hanno sbagliato e sono in carcere. E in carcere però non troveranno il modo di pagare il male fatto e riabilitarsi, ma solo di abbruttirsi, e aumentare la rabbia che hanno dentro, mentre fuori possibilità per loro non ce ne sono e non ce ne saranno.
Risale a più di un mese fa l’appello della Caritas Ambrosiana che denunciava la “situazione esplosiva delle carceri”, per sovraffollamento e le condizioni precarie di vita. A giugno il caldo non era ancora arrivato, oggi le città soffocano e chissà cosa succede in cella, dove – almeno in alcune – ai detenuti non è permesso tenere nemmeno un piccolo ventilatore.
La situazione insomma è rovente e una storia tra le tante, ma raccontata di persona, vicina, qui nel nostro territorio, non può certo lasciare indifferenti. Anzi, rende “più reali” i numeri (67 mila presenze carcerarie, oltre una volta e mezza il numero degli ospiti consentiti dalle norme; 32 suicidi dall’inizio dell’anno), più vere le denunce...
L.V. è una mamma cesanese, ha tre figli e il più grande è in carcere per detenzione di armi: “Fine pena 2019”, racconta la signora. “Mio figlio ha sbagliato ed è giusto che paghi, ma non certo nel modo in cui lo sta facendo”, sostiene. Perché il figlio è detenuto a Lecce. C’è un dramma nel dramma, quindi, che colpisce proprio la mamma che, come è normale e giusto, nonostante gli errori del figlio non smette di occuparsi di lui e volergli stare vicino.
“Sino al mese di gennaio era detenuto a Pavia”, racconta la signora, “il giorno del suo compleanno, però, quando sono andata a trovarlo gli agenti, gentilissimi, mi hanno detto che era stato trasferito a Como”. Quel giorno non c’era più tempo per fargli gli auguri, la mamma ha quindi visto il figlio solo cinque giorni più tardi. La settimana dopo il colloquio successivo: “Signora, suo figlio non è più qui, è a Lecce”.
La motivazione non è mai stata chiarita, la signora si è sentita dire “per il tipo di reato”, oppure per il “sovraffollamento”: “Ma che senso ha?”, si chiede la mamma, che ha limitate disponibilità economiche, lavora e ha anche altri figli minorenni. “Il sovraffollamento è un fatto reale”, commenta, “ma motivare con questo o altre scuse una detenzione a mille chilometri di distanza dal comune di residenza, è assurdo, anche perché anche il carcere di Lecce è sovraffollato”. Il figlio, infatti, vive in una cella singola, ma non da solo, vi dormono in tre, in un letto a castello che arriva a cinquanta centimetri dal soffitto.
“In Lombardia ci sono detenuti pugliesi e viceversa”, continua il racconto della signora, “per noi parenti diventa un vero problema sia di praticità che economico andarli a trovare: io personalmente faccio 20 ore di treno, per vedere mio figlio per un’ora e mezza, con il costo del viaggio, ogni volta, di 150 euro”.
Capita inoltre che per un colloquio l’attesa sia anche di ore e ore, tanto che gli incontri diventino necessariamente più brevi (c’è il treno del ritorno da prendere). Eppure i detenuti hanno diritto a sei ore di colloqui al mese: “Noi dovremmo essere messi nelle condizioni di poterle fare”.
Perché colpevolizzare anche parenti che già soffrono e vorrebbero solo rendere un po’ più dignitosa la vita senza dignità dei propri cari in carcere? Figli e mariti privati della libertà e costretti a vivere in condizioni ai limiti dell’umanità tra violenze e soprusi da parte di agenti penitenziari (non tutti) che certamente non vivono tanto meglio di loro.
E c’è anche l’aspetto economico: “In televisione ho sentito dire che un detenuto costa allo stato tra i 600 e gli 800 euro”, continua L. V., “vorrei tanto sapere su quali basi si facciano questi conti, visto che tranne chi non ha veramente nessuno, ogni detenuto ha la sua biancheria personale che ovviamente portiamo e laviamo noi parenti, anche perché se lo facessero loro, visto l’ambiente umido in cui sopravvivono, puzzerebbe”.
“Anche al cibo pensiamo noi: ogni parente porta al detenuto il pranzo per tutte le persone che vivono con lui in cella e per il resto, olio, pasta, piatti di carta, carne, verdura e generi per l’igiene personale e della cella, gli stessi detenuti li acquistano nello spaccio interno, ovviamente con i soldi che portiamo noi”.
La vita in carcere non è facile per nessuno, la pena colpisce non solo chi commette il reato ma anche chi gli è vicino. “Ma perché rendere tutto ancora più difficile?”, si domanda questa mamma , una tra le tante che subiscono le scelte di figli e mariti senza esserne responsabili.
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