A fronte della soglia minima richiesta di 500mila. Quel che è certo è che si è trattata di una mobilitazione in gran parte spontanea del corpo elettorale ben deciso a porre fine al Parlamento dei nominati
Inatteso, sorprendente e spiazzante, tre aggettivi che ben definiscono l’esito della raccolta firme (1milione e 200mila a fronte della soglia minima richiesta di 500mila) per il referendum abrogativo della legge elettorale vigente, a suo tempo definita “una porcata” dal suo stesso autore, il ministro leghista Calderoli...
Inatteso perché davvero in pochi si attendevano una valanga di firme (e c’erano forti timori perfino di raggiungere il minimo necessario del mezzo milione); sorprendente perché questa raccolta può a buon diritto definirsi la più oscurata dagli organi di informazione e per ristrettezza di mezzi a disposizione anche la meno pubblicizzata dagli stessi promotori. Spiazzante, perché divide le forze politiche non solo tra loro ma al loro stesso interno, tra sostenitori appassionati, tiepidi e occultamente ostili.
Quel che è certo è che si è trattata di una mobilitazione in gran parte spontanea del corpo elettorale, ben deciso a porre fine al Parlamento dei nominati dalle segreterie politiche e all’abnorme premio di maggioranza che veniva concesso ai vincitori delle consultazioni anche in presenza di una vittoria numericamente minoritaria. E anche un segno di stanchezza verso il sistema bipolare, clamorosamente fallito e capace di riunire in un colpo solo i difetti del maggioritario con quelli del proporzionale, senza ereditarne alcuna virtù.
Sulla questione è intervenuto lo stesso Presidente della Repubblica: “Non tocca a me fare nuove leggi, ma credo - ha affermato Napolitano - che la necessità di un nuovo sistema elettorale sia innegabile” sottolineando che il problema più grave è quello delle liste bloccate grazie alle quali non era tanto l’operato in Parlamento a far da premio al lavoro degli eletti, quanto il mantenimento di buoni rapporti con chi elargisce le nomine che gli elettori possono solo ratificare.
Inevitabile la rincorsa dei leader del centrosinistra a far da mosche cocchiere della vittoriosa mobilitazione elettorale. Operazione inevitabile ma comunque singolare, se si tiene conto del fatto, innegabile, che, al di là dei promotori, non si è francamente registrata una grande passione propagandistica da parte dei leader più in vista (Di Pietro e Parisi a parte).
Qualcuno ha fatto notare che gli stessi banchetti PD, soprattutto nel corso delle tradizionali Feste estive, sono stati organizzati spontaneamente dagli iscritti, e non certo per indicazione della Segreteria nazionale (i “si dice” raccontano che Bersani nemmeno abbia firmato) e se il loro peso è stato decisivo, lo si deve alla libera iniziativa dei militanti e non certo alla sapienza organizzativa dei massimi organismi dirigenti.
Ora la questione si apre in questi termini: andare subito al voto per evitare la consultazione referendaria (segnali in questo senso sono venuti da Roberto Maroni, regolarmente smentiti in fase successiva come è ormai vezzo degli ex rinnovatori della politica della Lega Nord e con lo stesso orientamento si è espresso Pierferdinando Casini); elaborare una nuova legge nell’attuale Parlamento (che sarebbe però come chiedere al tacchino di farsi promotore dell’anticipo delle festività natalizie); affrontare il voto referendario con tutti i rischi annessi e connessi ad una vittoria popolare che suonerebbe condanna dell’attuale classe politica, in primis quella dirigente.
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