Il terremoto ci offre: un Paese fragile, un Paese debole, un Paese irresponsabile. Un Paese sempre pronto alla retorica, compresa quella dell’amore per la propria terra, cantato spesso con voce tremula e lacrimuccia incombente. Terra che poi nei fatti viene regolarmente violentata in nome dell’affarismo o anche solo della piccola convenienza. Attendo con ansia indispettita le solite litanie con al centro i vuoti “mai più un’altra cosa del genere”. Invece sappiamo benissimo che ne capiteranno altre, alla prima alluvione, alla prima slavina, al primo sisma che smaschererà per l’ennesima volta costruzioni mal fatte, regole non rispettate, ricostruzioni non eseguite, scienziati ed esperti inascoltati e diventate anzi pretesto per nuovi affarismi, nuove piccole convenienze...
Quello che c’è da ricostruire in questo Paese non sono solo le strutture ma un’intera cultura collettiva che è andata sfarinandosi come i capannoni dell’Emilia Romagna, una cultura che guarda solo alle convenienze dell’oggi, che si misura progettualmente senza pensare, non dico alle nuove generazioni, ma perfino all’arco temporale della vita di un singolo. Con strutture sotto le quali lavorare oggi e morire prima di andare in pensione.
Perché non è più vero che “del doman non v’è certezza”, lungo questa strada questo Paese ha la certezza di finire male, malissimo.
Altro che Bel Paese.
Fulvio Scova
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